Madison Morrison’s Web / Sentence of the Gods / A Visit to Vietnam

Da Anterem 79 (“Tu”)

Ridefinire, senza ripudiare, la sua identità

Traduzione di Alessio Rosoldi

Il viaggio inizia con rispetto. All’interno del secondo portale una targa illustra il programma didattico dell’Università Nazionale. Ognuno dei due pilastri più alti è sormontato da una bestia mitica, il Ly, che ha il potere di distinguere tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Dice che veniva prestata particolare attenzione ai “Quattro libri” (il Da Xue, lo Zhong Yong, il Lun Yu e il Meng-zi). Per Derrida il fenomeno è la domanda, perché non esiste alcun fenomeno senza almeno la possibilità della domanda, la possibilità di porre domande riguardo al fenomeno, incluso il fenomeno della domanda, in un linguaggio filosofico con tutti i termini di opposizione e controllo logico. Ma che venivano esaminati anche sui cinque classici pre-confuciani (le Odi, gli Annali, i Riti, il Libro delle primavere e degli autunni, il Libro delle mutazioni), come anche sulla poesia antica e sulla storia cinese. Perciò qui propongo di seguire ciò che dal mio punto di vista è la fedeltà costante di Derrida alla domanda, una fedeltà che non può essere mai ridotta alla domanda, ma che non può nemmeno essere espressa senza di essa.

 

Siamo entrati nel Grande Cortile, dove una palla di gomma di un bambino, a strisce rosse e bianche, è stata dimenticata su un malridotto campo di loglierella. Seguirò questa fedeltà alla domanda chiedendo in che modo lo stesso Derrida segua la domanda in un altro filosofo, ossia, seguendo Derrida che chiede a Levinas qual è il ruolo della domanda e il suo rapporto con il fenomeno. L’autore osserva uno dei due laghetti dei fiori di loto, tra loro simmetrici, sopra al quale si estendono i rami di un maestoso baniano. Vedremo che dall’inizio alla fine è la domanda del fenomeno e il fenomeno della domanda che ritorna in maniera incessante. Una madre, di etnia vietnamita, spiega in inglese alla figlia di dieci anni, il cui lungo vestitino rosso e nero è fatto con la stessa stoffa di quello della madre, ciò che la guida le ha appena spiegato in lingua vietnamita. “Tra le dottrine del mondo, la nostra è la migliore ed è venerata da tutte le terre affamate di cultura”, dice un’iscrizione, “Di tutti i templi dedicati alla letteratura, questo, il Van Mieu, è il più importante”.

 

Una guida vietnamita, con sandali neri, pantaloni neri, camicia nera e giacca nera, spiega a tre turisti francesi il modello architettonico del tempio (abbiamo raggiunto il “Puits de la Clarté Céleste”, dice loro). Orientata o guidata ogni volta da un nuovo pensiero all’interno dell’opera di Levinas, torna sempre la questione della domanda, la questione del rapporto della filosofia come regno o regime della domanda con ciò che va oltre la filosofia, e del rapporto dell’ontologia, se non della fenomenologia, con l’etica. La virtù e il talento rappresentano le chiavi di passaggio dal primo al secondo cortile. All’interno del terzo portale due studenti universitari vietnamiti stanno copiando meccanicamente alcuni bassorilievi. Ogni volta è una questione dello stesso e del qualcosa che resiste sia alla questione dello stesso, che alla possibilità del linguaggio filosofico di ricevere o accogliere ciò che lo precede o che lo supera. L’autore si volta verso un portico pieno di testuggini che portano sul dorso grandi lapidi, su cui è scritto: “È severamente proibito scrivere, disegnare, calpestare o sedersi sulle Steli del Dottore”.

 

Si siede con circospezione, rallegrato dal sorriso di una diciottenne vietnamita con dei sandali giallo brillante, che sta seduta accanto a due sue compagne d’università, mentre una quarta ragazza con uno zaino rosso si unisce alla loro vivace conversazione. Due carpe poste in cima al sobrio cancello simboleggiano gli studenti che hanno intrapreso il cammino per diventare mandarini. Nel frattempo, una sgarbata donna francese di 65 anni, con scarpe da pallacanestro bianche e grigie, si mette seduta a sfogliare le pagine della sua guida assieme al marito. Dalla pubblicazione di “Violenza e metafisica” al suo Adieu finale, è una questione della necessaria violenza dell’ontogenia, una questione dell’inevitabile e forse salutare interruzione della relazione etica, una questione dell’ospitalità che non può essere mai offerta all'Altro una volta interrotta tale relazione, una questione del benvenuto che può sempre essere riservato per essa. Una donna coreana dall’aspetto robusto aiuta la figlia paffutella a stendere un’amaca di vinile di colore verde brillante, per poi osservarla mentre la rimpacchetta nella sua custodia di plastica nera, mentre la loro guida vietnamita coreanofona si tiene a rispettosa distanza.

 

Si entra nel “Cortile dei saggi” passando attraverso il Dai Than Mon, o Cancello della grande sintesi, altrimenti tradotto come Cancello del grande successo. Alla fine, le due donne vengono raggiunte dal resto del gruppo e trascinate nel loro avanzamento collettivo. Gli elementi della dottrina confuciana, l’apprendimento del passato e la conoscenza del buddismo e del taoismo, vengono qui riuniti assieme per completare l’erudizione di ogni studioso. Un’altra ragazza diciottenne vietnamita gira la testa rivelando una lunga coda di cavallo tenuta da una molletta a forma di girasole, con cinque petali gialli di plastica che s’irradiano da una parte centrale di colore arancione. Dopo aver letto Derrida nel corso degli ultimi trent’anni, oggi, alla luce di Adieu, possiamo cominciare ad interpretare “Violenza e metafisica” come un grande testo sull’ospitalità, un’ospitalità che viene sempre concessa per mezzo della domanda ma che non può mai essere ridotta ad essa. Mentre la seconda studentessa diciottenne, anche lei seduta, si gira per sorridere all’autore, una sua compagna si appropria di uno dei suoi sandali per utilizzarlo come sedile improvvisato.

 

Più avanti si presentano il Cancello del suono aureo e il Cancello della risonanza di giada. Mentre entriamo nella Corte dei Saggi, appaiono due donne vietnamite di mezza età vestite interamente di nero, una con una camicetta con maniche di velo trasparente. Sì, trent’anni prima di Adieu, “Violenza e metafisica” era, o sarà stato, un grande testo sull’ospitalità, proprio come Adieu, da quel che vedremo, può esser letto come un grande testo sul rapporto tra la violenza e il linguaggio metafisico, dove metafisico va qui inteso sia nel suo senso Levinasiano che in quello più tradizionale. Dopodiché appare un gruppo di tre persone costituito da (1) una donna caucasica sessantenne, in sovrappeso e con capelli grigi tagliati molto corti, (2) una donna vietnamita di trent’anni con dei pantaloni neri attillati e un toppino molto sexy di colore viola e nero, (3) una bambina bionda di otto anni con una maglietta color lavanda con su scritto “I Wanna Dance” e uno smiley giallo al centro. Dal punto di vista storico, il quinto cortile serviva da università, dotata di aule per gli studenti, dormitori e strutture per la ristorazione, assieme ad una tipografia che stampava libri scolastici cinesi e vietnamiti.

 

Oggi il cortile è adornato con sculture topiarie che crescono storte e instabili in tre vasi disposti presso l’entrata, dove una guida vietnamita germanofona ha preso posto per fornire spiegazioni, nel suo accento originale, su quello che lui definisce il “Platz der Ceremonie.” Oggigiorno, “Violenza e metafisica” può esser letto come una serie di eccezioni o domande poste a Levinas riguardo il rapporto tra il linguaggio filosofico, il linguaggio in cui Levinas non cessò mai di scrivere, e la sua capacità di accettare, ricevere o – citando Derrida dal 1964 - “dare il benvenuto” a ciò che è completamente “altro” dentro di esso. Nel frattempo, una guida anglofoba indica le foglie e i rami di un frangipani, mentre la luce del sole riempie il cortile e turisti di varie nazionalità si avvicinano all’altare di Confucio per praticare l’arte della fotografia amatoriale. In che modo, chiedeva Derrida più di trenta anni fa, il linguaggio di Levinas può essere ospitale verso ciò che è estraneo ad esso senza porre serie domande, ossia, senza porre serie domande a questo “altro”…

 

. . . senza perciò richiedere una risposta che tradurrebbe il linguaggio dello straniero o dell’estraneo – la domanda che è l’estraneo – nel linguaggio dell’ospite, che trasformerebbe in un fenomeno ciò che supera e si oppone alla luce? Un gruppetto di quattro ragazze vietnamite in vestiti ao dai tradizionali — di colore rosa, giallo, magenta e salmone – si materializza dal nulla. I moderni critici vietnamiti di questo metodo didattico. Una mosca minuscola si poggia sulla gamba dell’autore. Sono contrari all’enfasi che esso pone sulla memorizzazione, alla sua mancanza di attenzione verso l’istruzione pratica, alla sua indifferenza nei confronti della storia vietnamita a vantaggio della storia e della cultura cinesi. Due ragazze giapponesi in jeans e magliette nere – su una c’è scritto “Fuoco interiore”, mentre sull’altra “Impegnarsi per il regno dell’altruismo” – vengono raggiunte da altre due ragazze, in magliette verdi e bianche, che le fotografano. Parlano della sua irrilevanza, dello “stare seduti sul ponte in Do e parlare della terra di Moc”. Lasciandosi alle spalle questa frenesia fotografica, l’autore s’incammina verso il santuario di Confucio che, su una targa, è così descritto:

 

“Intelligent, calme, passioné d’études, il était célèbre pour son érudition avant l’âge de trente ans”. Per circoscrivere queste questioni di linguaggio e ospitalità, Derrida parlò, già nel 1964, del rapporto tra interno ed esterno. Siamo usciti dalla luce del sole e siamo entrati nel tempio. “Des élèves venaient de partout pour suivre son enseignement.” Fedeli celebranti s’inchinano in riverenza. “À partir de 54 ans, avec des disciples, il voyagea dans plusieurs principautés pour parfaire ses connaissances et propager son savoir.” “Un non-greco,” chiese, “riuscirà mai a fare ciò che un greco non è riuscito a fare, se non travestendosi da greco?” Per raggiungere l’immagine di Confucio dobbiamo attraversare un cortile molto stretto; passando sotto un architrave, ci troviamo di fronte all’immagine di porcellana. À 68 ans il retourna à Lo pour écrire et enseigner à pres de 3000 disciples”. Due candele rosse bruciano davanti al saggio vestito con la tunica rossa. “Il mourut à 73 ans”. Due mazzi di rose sono stati infilati in due vasi di bronzo posti sul sobrio altare, accanto al quale si ergono due colonne rosse.