Da Anterem 82 (“Pathos del dire ulteriore”)
Each, Capitolo 6
Tra tutti i luoghi possibili, mi ritrovavo nuovamente a Zurigo — züruck in Zurich come dicono loro — il mio Vorort, o sobborgo, natale. Che esperienza magnifica, starsene seduti a Stadtplatz in primavera, o Frühling, e “sentirsi pieni di vita” come dicono gli Amis [nomignolo con cui i Tedeschi chiamavano gli Americani negli anni ’60 – N.d.t.], quei giovani e cordiali turisti americani così bene agghindati in Svizzera — in der Schweiz (so sagt man). Ero seduto ad un vivace caffè, abbandonato ai ricordi delle mie vite passate, quelle vite che avevo vissuto in giro per l’Europa Centrale, per tutto il corso della Mitteleuropäische Geschichte, dal Medioevo agli anni ’40. Gli eventi mi passavano davanti agli occhi come scene di un film, i personaggi erano catturati ed imprigionati nelle pagine di un libro di disegni, rilegato in cartapecora per il re da un suo paggio personale che s’ispirava ai talenti degli artisti del regno. Nella prima scena apparivo in due vesti diverse, o come un re medievale in procinto di perdonare un uomo di colore, oppure come lo stesso uomo di colore che supplicava il re di perdonarlo. La scena ha qualcosa d’indistinto, come se fosse un sogno. Associo i gesti del re con gli emblemi del suo abito – una croce elaborata e figure di fleurs-de-lis, anche se la sua postura è tutt’altro che cruciforme, con la mano e l’espressione facciale che indicano una certa alterigia d’animo. È il nero ad avere le braccia spalancate. Quindi ritornavo alla Zentralplatz, dove all’ultimo momento riuscii a portarmi al petto l’ultima copia esistente di un’edizione del 1 giugno del 1944 dell’oramai defunto Zentralblatt, nella quale venivano annunciate le ultime notizie di guerra. I bombardamenti a tappeto erano ricominciati nella Deutschland. Sulle pagine del giornale le città apparivano quasi completamente rase al suolo. In uno schizzo abbozzato in fretta e furia, alcuni pompieri apparivano combattere con un immenso cobra — anzi no, a ben guardare si trattava di una manichetta d’incendio; il disegno era stato tracciato in maniera così frettolosa da gettarmi in uno stato di nervoso fraintendimento. Inoltre, altrove continuavano a spuntare elementi bizzarri. A dire il vero, mi sentivo vincolato dalle impressioni dell’artista, che avevano ridotto il mondo reale ad una serie di elementi facenti parte di una composizione (parzialmente) assurda. Ad esempio, un giovane pompiere stava in piedi su una scala diretta verso il nulla, e sullo sfondo delle nubi a mezzatinta lo minacciavano con asfissianti fumi cinerei. Un altro personaggio stava coraggiosamente in piedi con delle scarpe mal suolate, e un bugle bianco luccicante fissato, incollato, o semplicemente proiettato in controluce, sulla sua schiena. Tutte le figure erano prive di faccia e, pensierose e dinamiche come il disastro che contemplavano, stavano tutte in piedi immobilizzate in posizioni eterne, commemorative. Perciò il lettore può immaginarsi il sollievo che provai quando, sfogliando le pagine interne dello Zeitung o Blatt, un vero — ed uso il termine deliberatamente — pupazzo di neve comparve all’improvviso di fronte al lettore — in questo caso, io stesso, un ragazzo di quattordici anni, seduto su un’altalena estiva nella veranda del nostro chalet svizzero a Küsnacht, quel delizioso sobborgo di orologiai di Zurigo. A questo punto faccio una pausa per contare nuovamente i miei compleanni, andando indietro nel tempo fino al 1916, un anno curioso per il fatto che, sottosopra, si legge come 1619, ossia l’anno della prima forte nevicata registrata a giugno nel sobborgo di Küsnacht. Quali stranezze ci riserva la storia, visto che 297 anni dopo ha luogo una seconda nascita, quando, con un bastone biforcuto in mano, vengo alla luce nella fantastica forma di un pupazzo di neve pienamente sviluppato, anche se modellato in maniera poco raffinata. Quasi tutti gli abitanti del sobborgo, piccolo ma in piena espansione, fanno poco caso a questo evento, forse a causa del freddo polare di quella serata di giugno; invece, accendono i camini e se ne vanno a letto presto, con la speranza che, durante la notte, giunga un vento più estivo, in grado di dissipare prima dell’alba quella tempesta di neige, o Schnee, o neve, fuori stagione. Notate che ho detto quasi tutti gli abitanti. Perché c’è un’eccezione, di cui vi parlerò immediatamente. È quasi mezzanotte, anzi, dovrei dire, è prima di mezzanotte. Nella profondità dei recessi della mente, siede, questa notte, mio padre, un uomo sessantenne con l’aspetto di un giovine. La sua nascita ha avuto luogo l’ultimo giorno di maggio del 1854, e così, dopo un lungo e tranquillo Geburtstag (o anniversario), ha riversato il suo corpus melanconico nei suoi studi. È notte fonda, eppure sta qui seduto senza avere nemmeno una candela accesa, e legge alla luce dei raggi di una luna piena, ma sinistra, riflessi sulla neve. Davanti a lui, sul tavolo coperto, sono poggiati svariati tomi, due dei quali sembrano in attesa di essere compulsati, e uno con le pagine sul punto di essere alacremente sfogliate. Perché, mi chiedi, utilizzo un idioma così bizzarro? Caro lettore, mi pongo la stessa domanda senza ricevere adeguata risposta. Posso solamente dirti che le pagine del tomo che il Padre tiene nella sua mano gentile ma malata, sembrano prendere vita mentre le analizzo. In effetti, come il cuore di carciofo tenuto nella sua mano sudaticcia, anche loro cominciano a germogliare.